Il lupo non ha bisogno di tifoserie




A cura di Aldo Martina


“FA-UNA COSA GIUSTA: DIVULGA!” Gruppo pubblico di divulgazione scientifica



in memoria di Paolo Barrasso

Il lupo, una ne pensa e cento ne fa 

"Non ci si può congedare dal lupo senza accennare al luogo comune “per eccellenza”, quello che attualmente imperversa su tutti i media come tra le chiacchiere da bar. Come abbiamo accennato nel capitolo Lupus in fabula [e nel precedente articolo del 9-1-21], il lupo è stato ed è oggetto di interesse di studiosi che ne approfondiscono gli aspetti più disparati ma ciò di cui può vantarsi oggigiorno, rispetto ad altre specie rilevanti e di altrettanto spessore, è l'alto numero di presunti esperti fra il grande pubblico. Capita anche quando ci sono i mondiali di calcio, o qualche altra competizione di particolare interesse: tutti diventano allenatori, tutti pronti a trovare la miglior soluzione agonistica, ma il più delle volte senza una reale cognizione, se non quella emotiva e arbitraria del tifoso, ammiratore del proprio club ma certo non il più indicato a vedere le cose in maniera oggettiva. Personalmente credo che si possa essere amanti del calcio, o del ciclismo o del ping pong, senza dover essere per forza tifosi. Per farla breve, a me piace il calcio perché è uno sport di squadra divertente da vedere e da giocare, mi piacciono anche le arti marziali, che sono discipline individuali con molta tecnica e spiccato autocontrollo. Quello che mi aspetto è del buon gioco, delle belle prestazioni, indipendentemente dai colori o dalla bandiera che gli atleti in quel momento rappresentano. Abolirei perfino gli inni nazionali durante le premiazioni, ne lascerei uno solo, magari specifico della disciplina, ma che vale per tutti e in cui tutti si riconoscono, senza alludere ad antiche rivalità o sollecitare spiriti di rivalsa (perché viene suonato l'inno del primo podio e non anche quello del secondo e del terzo?). Se poi il senso di appartenenza degenera in una contrapposizione che diventa sociale, etnica o geografica, come succede sempre più spesso nel mondo calcistico, allora si è andati ben oltre lo spirito sportivo.  

Il lupo non ha bisogno di tifoserie 

Cosa c'entra tutto questo con il lupo? C'entra, se ci poniamo di fronte a questo animale con lo stesso stato d'animo che imperversa nelle tribune di uno stadio. Il lupo, al contrario, non ha proprio bisogno né di tifosi né di denigratori, ha invece l'esigenza di essere compreso: quello che gli serve o, per meglio dire, quello di cui noi necessitiamo, è che se ne parli senza i pregiudizi da opposte tifoserie. La domanda che quindi dovremmo porre a noi stessi è: saremo capaci prima o poi di considerare il lupo come “lupo” e non più come “problema”? Ma per rispondere a questa domanda bisogna prima risolvere un nostro difetto culturale, dovremmo cioè correggere definitivamente quell'approccio, deleterio, che ci porta a considerare come un disturbo, una inutilità, o addirittura un pericolo, gran parte di ciò che si muove intorno a noi. Mantenere un sistema di visione esclusivamente antropocentrica, in base alla quale tutto gira intorno all'uomo, ci porta ad una deriva dal senso della vita, senza vie di scampo. Se non capiamo che anche l'uomo, la specie cui apparteniamo, è parte integrante di un sistema complesso che si regge su equilibri delicati, la strada che ci resta da percorrere sarà più breve del possibile. Attenzione, non sto dicendo che non si può vivere senza il lupo, se domani scomparisse dalla faccia dalla terra la mia vita, o quella del mio lettore, non subirebbe grandi cambiamenti (a parte il senso di tristezza e di impotenza che alcuni di noi certamente proverebbero), dico invece che non si può sopravvivere se cancelliamo l'idea che qualcosa di diverso possa esistere insieme a noi. 

Il lupo non è mai stato reintrodotto

Fino a neanche tanto tempo fa si credeva che il lupo fosse capace di ipnotizzare con lo sguardo. Non avendo trovato alcuna prova scientifica che confermasse il possesso di questo super potere, possiamo con assoluta sicurezza affermare che si trattava di pura e semplice superstizione (come era ovvio, d'altronde). L'analisi scientifica serve proprio per dimostrare o rigettare l'attendibilità di una ipotesi, di un avvenimento, un fenomeno, un fatto o di un comportamento; essendo per definizione verificabile e ripetibile, la prova scientifica è l'unica a cui ci si deve attenere per non cadere nell'infido sacco delle congetture. La mia intenzione, in queste poche pagine, non è di parlare di vetuste teorie fantascientifiche ma di smontare (almeno ci provo) qualcosa di più attuale, che ha a che vedere con la vera natura del lupo, con il valore intrinseco che la contraddistingue, cioè con la sua fitness ecologica, come dicono i biologi. Prima però voglio riempire qualche riga per chiarire un paio di cose. Primo: non mi reputo “tifoso” del lupo nel senso esclusivo del termine, allo stesso modo lo sono della lepre, del pettirosso, della oloturia, del ramarro, del rospo, del muggine, della vanessa, e così via. Secondo: ritengo che, oggi come ieri, il lupo sia una specie potenzialmente pericolosa per l'uomo, ma so che la zecca lo è di più, così come la vespa, l'ape, la malmignatta, l'orso, il topo, il cinghiale e qualsiasi altro animale messo alle strette dalle circostanze, ferito, malato, impaurito, stressato, affamato, madre di una prole. Perfino la vacca, il cavallo e la mia gattona Alice di sei chili possono ferire o far di peggio, per non parlare poi del miglior amico dell'uomo. A questo proposito, cito solo un dato: in 25 anni (1984-2009) in Italia i cani hanno ucciso 32 persone; in base ai registri civili l'ultimo caso ufficialmente accertato di uccisione ad opera del lupo risale al 1825, ben due secoli fa, non voglio dire che in questo barlume di tempo abbia perso per strada i canini o l'indole predatoria, no di certo, caso mai è diventato più avveduto, soprattutto laddove vive a stretto contatto con l'uomo. Teniamo sempre bene a mente qual è la realtà dei fatti. Chiarito ciò, torno all'argomento centrale: qual è la chiacchiera che imperversa in questi anni, soprattutto nelle regioni del nord Italia? Facile, quella secondo cui il lupo sarebbe stato reintrodotto, sottintendendo il rilascio volontario di un certo numero di esemplari da parte di chicchessia. Se si chiede a colui che lo afferma chi sarebbe l'autore delle presunte reintroduzioni, la risposta che si ottiene è sempre generica, con variazioni sul tema a seconda dell'umore: l'ambientalista, l'animalista, lo zoologo, il WWF, l'Università, il Corpo forestale dello Stato (ora che non esiste più, mi aspetto che qualcuno prima o poi accuserà perfino la Benemerita), un nucleo segreto dell'amministrazione di turno. Tutte risposte sentite personalmente, vi assicuro. Poi, volendo andare un pochino più a fondo, se gli si domanda quale potrebbe essere il motivo per cui questo chicchessia ha interesse a reintrodurre i lupi, le risposte diventano confuse, spesso paradossali, vediamo le due più ricorrenti. «...lo fanno per ottenere i soldi dall'Unione Europea che servono a stipendiare gli esperti». La logica del ragionamento sarebbe questa: spendo soldi per liberare lupi ovunque così poi la UE mi dà i soldi per poterli studiare. È evidente che chi afferma l'esistenza di questa sorta di subdolo stratagemma, non ha la minima idea della differenza che intercorre tra scienza e malaffare. “Lo fanno per ridurre gli ungulati”: al limite questo sarebbe anche un buon motivo, se poi non venisse aggiunto “così i cacciatori non hanno più da cacciare”. Queste risposte, che rimbalzano continuamente tra gli organi più o meno ufficiali di informazione, contribuiscono alla propagazione a tempo indeterminato di una insinuazione che è di assoluta infondatezza. Per superficialità, per diffidenza, talvolta per ricavare consensi, purtroppo essa si è trasformata in un vero e proprio luogo comune, e non tiene alcun conto della realtà, quella scientifica e dimostrabile. È ovvio che tale modo di agire ha poi come conseguenza la fomentazione del malcontento, l'inasprimento delle paure e, non tanto velatamente, la predisposizione al bracconaggio (ricordo che il lupo in Italia è protetto). Dal fronte opposto pervengono reazioni astiose, di chiusura completa verso la categoria dei cacciatori, degli allevatori, delle amministrazioni e chi più ne ha più ne metta, e quando leggo da una parte: “i lupi hanno SBRANATO un povero capriolo (o una povera pecora)” e dall'altra: “maledetta feccia umana, dovete sparire dalla Terra”, il messaggio che trapela è pericolosamente inutile, in entrambi i casi. Non è una buona soluzione quella di dare spazio libero al sensazionalismo, riportando le notizie con leggerezza o condendole con palese intenzionalità. Quello che serve è invece leggere e ascoltare interpretazioni realistiche, ragionate, al fine di razionalizzare l'espansione geografica, incontrovertibile, del lupo. Essendo fondato su una consapevolezza che deriva dalla conoscenza e dalle prove evidenziate in centinaia di studi in tutta il mondo, l'approccio razionale con cui si devono raccontare gli eventi che lo riguardano deve essere l'unico adottabile. Questo se si vuole davvero far comprendere l'importanza ecologica del suo ritorno (previsto, e non orchestrato) sull'arco alpino cercando, contestualmente, di mitigare i conflitti e le tensioni sociali. 

La resilienza del lupo

Ciò che è difficile far accettare a molti, non prepotentemente ma realisticamente, è la capacità che questo canide ha di recuperare spazi. In ecologia si usa il termine “resilienza” per indicare la facoltà di riprendersi di fronte ad una alterazione demografica anche molto marcata. Naturalmente non tutte le specie sono in grado di resistere agli eventi con la stessa efficienza, in generale riescono meglio le più adattabili perché meglio predisposte geneticamente. Facciamo un confronto. Immaginiamo di eliminare in una determinata area geografica il cibo di un animale specializzato, per esempio il capovaccaio (un piccolo avvoltoio, ormai raro nel centro-sud Italia), e quello di uno generalista come la volpe. Il primo è programmato per nutrirsi principalmente del midollo presente nelle ossa lunghe di animali morti, il secondo va alla ricerca delle prede più abbondanti e facili da reperire come i piccoli roditori. Naturalmente ci aspettiamo che, data la differente quantità e distribuzione delle rispettive risorse, in quell'area ci siano più volpi che avvoltoi. Se però eliminiamo le loro fonti alimentari, l'avvoltoio andrà incontro ad una estinzione locale perché non è in grado di sfruttare del cibo alternativo; diversamente, la volpe sarà capace di modificare la sua dieta, per esempio diversificandola stagionalmente (lombrichi in estate, rettili e nidiacei in primavera, frutta in autunno e rifiuti in inverno), e non subirà modifiche demografiche sostanziali, manifestando una resilienza maggiore. Vediamo ora cosa ci si aspetta che succeda dal punto di vista riproduttivo. Sappiamo bene che la disponibilità di cibo e quindi la salute influisce sul successo riproduttivo. Il capovaccaio è monogamo, forma una coppia fissa e depone due uova all'anno, con il maschio che contribuisce alla cova; mediamente un solo piccolo riesce ad involarsi, e di norma si riprodurrà non prima dei due anni di età. Anche la volpe è territoriale, ma il maschio, refrattario all'idea della famiglia intesa in senso umanamente tradizionale, può anche provvedere alla fecondazione di più femmine; il numero di cuccioli partoriti può andare da uno a undici (mediamente sei), e già l'anno successivo i giovani possono a loro volta riprodursi. Immaginiamo ora di eliminare gran parte delle risorse alimentari. La coppia di avvoltoi, non potendo disporre a sufficienza di cibo non si riproduce, oppure tenta, ma facilmente non sopravvive nessun pulcino. Nel caso della volpe la risposta sarà diversa: diciamo, per semplificare, che in carenza di cibo le varie femmine residenti in quell'area partoriranno un numero medio di piccoli più basso, tuttavia è assai probabile che qualcuno di questi riesca a sopravvivere raggiungendo poi l'età della riproduzione. Perciò la resilienza è condizionata anche dalle diverse strategie riproduttive: in generale possiamo prevedere con ragionevolezza che le più opportunistiche, e che vantano un più ampio spettro alimentare, si adatteranno meglio alla mutabilità delle condizioni ambientali. Tutto ciò che vale per la volpe si adatta a gran parte dei canidi, lupo compreso. 

La riconquista del territorio

Il lupo appenninico (Canis lupus italicus) è sopravvissuto con un nucleo di un centinaio di individui o poco più sulle montagne dell'Appennino centro-meridionale (Abruzzo-Sila) nutrendosi di tutto quello che il territorio poteva offrirgli: selvaggina, animali domestici, rifiuti, scarti di macelleria, placente rinvenute nei pascoli. Negli anni '70 dello scorso secolo, seguendo alcuni esemplari appositamente catturati e radio-marcati, i ricercatori hanno potuto verificare che questi animali attraversavano le strade dei paesi abruzzesi durante i loro spostamenti notturni, e in alcuni casi venivano localizzati nascosti a pochi metri da luoghi frequentati dall'uomo, in attesa del momento giusto per defilarsi e proseguire il cammino per raggiungere l'immondezzaio, lo stazzo con le pecore o la sicurezza del bosco. Questo avveniva in qualsiasi stagione, non necessariamente in inverno, tuttavia ancora oggi leggiamo notizie allarmistiche che imputano al freddo e alla neve la discesa dalle montagne dei lupi: è un luogo comune anche questo (con la neve è solo più facile scorgerne le tracce), lui sta dove più gli conviene, montagna, collina, pianura, non è una questione di quota ma di condizioni favorevoli. Nel Lazio, ad esempio, nel 2013 si è formato un nucleo riproduttivo nella Tenuta agricola di Castel di Guido, tra Roma e Fiumicino, ad una quota di appena 40 metri s.l.m. È molto difficile per qualunque animale selvatico muoversi nel territorio senza imbattersi in qualche infrastruttura, una strada, un centro abitato, una casa. Già durante i primi studi in Italia, il lupo stava modificando il suo areale approfittando di quella serie di elementi favorevoli menzionati nel capitolo Lupus in fabula [e nel precedente articolo del 9-1-21], ma che per comodità riportiamo: le normative di tutela, la maggior disponibilità di prede selvatiche (cinghiale, cervo, capriolo, muflone, camoscio), la diffusa presenza di discariche “a cielo aperto”, l'abbandono o la limitazione delle attività agro-pastorali. Grazie a queste mutate condizioni, nei primi anni '80 del secolo scorso il lupo appenninico riesce ad arrivare in Francia, nel Parco Nazionale del Mercantour, dopo aver attraversato l'intera dorsale appenninica. Nei primi anni '90, dal versante italiano delle Alpi Marittime comincia a diffondersi nelle regioni dell'arco alpino seguendo la direttrice ovest-est. Nei primi anni del 2000 è registrata la presenza sui Pirenei, al confine con la Spagna, dove era già presente una popolazione. Nel 2012 viene documentata la presenza di una coppia al confine tra Veneto e Trentino, formata da una femmina della popolazione appenninica e un maschio proveniente dalla popolazione slovena, quindi per la prima volta si incontrano individui di due diverse popolazioni. In questi ultimi anni la popolazione alpina è andata via via rafforzandosi, e l'ultima stima (2018) riporta la presenza di almeno 46 gruppi. In sostanza questa configurazione geografica è in atto da 40-50 anni, non da ieri, in un arco di tempo tuttavia ridotto se pensiamo all'estensione dell'area attuale rispetto a quella in cui era stato confinato fino ad allora. Di fronte ai dati che testimoniano una graduale riconquista dell'antico territorio, insorgono comunque dei detrattori che continuano a credere (e a raccontare) che non può trattarsi di un ritorno naturale, bensì operato dall'uomo attraverso delle reintroduzioni clandestine. Su quali basi ciò viene affermato? Nessuna. 

Perché non serve reintrodurre i lupi? 

Ogni tanto esce fuori un articolo corredato dalla foto di un lupo immortalato mentre esce da una cassetta di trasporto, con indosso un evidente collare satellitare, e il titolo allude alla “prova inoppugnabile” di una reintroduzione. Peccato che si tratta sempre di lupi feriti, in seguito ad un investimento (fra le prime cause di mortalità in Italia), recuperati, curati in appositi centri riabilitativi e, una volta guariti, rilasciati in prossimità del luogo di recupero (questa procedura viene seguita con qualsiasi animale selvatico). Difficilmente, da quegli stessi organi di stampa, verrà poi dato spazio con la medesima enfasi ai comunicati istituzionali che smentiscono la precedente illazione. Ormai il danno è fatto e in tanti se la son bevuta (e si sa, con le bevute le chiacchiere girano). Cosa si può dire a coloro che insistono con questa storiella della reintroduzione? Intanto fornendo un altro dato di fatto, basta consultare le riviste scientifiche di mezzo mondo per scoprire che il lupo è in espansione ovunque, non solo in Italia: Francia, Svizzera, Austria, Germania, Belgio, Olanda (perfino in Nord-America). Ci sarebbe quindi da chiedersi se può mai esistere una forza occulta e perversa che, non avendo altro da fare, si diverte a distribuire lupi a destra e manca in tutto l'emisfero boreale. Purtroppo colui che ancora crede che il lupo sia stato reintrodotto in Italia, nella sua provincia, nel suo comune, nel suo giardino, difficilmente andrà a documentarsi. Mi chiedo perché la scuola non insegna più a fare le ricerche, a risalire alle fonti, a verificare le informazioni. A chi ritiene che un'espansione del genere non sia possibile, va sempre ricordato che il lupo è un canide, esattamente come la volpe degli esempi precedenti, ma con un potenziale in più: la vita sociale. Così, mentre una volpe adulta per vivere può contare principalmente su se stessa, un lupo può invece contare sulle relazioni sociali che intercorrono nel suo branco: si aiutano, cacciano insieme, ognuno contribuisce alla difesa del territorio, del branco, della prole (esattamente come ha sempre fatto la nostra specie, perché stupirsi?). È vero che ci sono anche individui solitari, per lo più giovani in dispersione o i reietti, cioè quelli allontanati dal branco, gli emarginati (quante analogie, vero?). I giovani sono delle avanguardie: vagano, percorrono centinaia, migliaia di chilometri, finché non trovano un partner e uno spazio libero dove metter su famiglia (non è spesso così anche per noi? scavezzacolli da ragazzi, poi il partner, la famiglia, la sedentarietà). È proprio grazie ai giovani in cerca di aree vitali che la specie si è estesa; anche per il nostro paese sono ben documentati movimenti così marcati: M15, noto alla cronaca come “Ligabue”, ha percorso 1300 chilometri in meno di un anno, tra Parma, Nizza e Cuneo; “Slavc” ne ha percorsi circa 2000 dalla Slovenia alla Lessinia. Molti studi di radiotelemetria hanno inoltre riportato spostamenti di 50 chilometri in una sola notte: ciò è possibile perché il lupo è un trottatore e si muove normalmente ad una velocità di crociera sostenuta, riuscendo a mantenerla per decine di chilometri. Ce lo dimostra anche il suo equivalente delle pianure africane, il licaone. Altra storia è quella dei felidi, la cui andatura abituale di spostamento è il passo. D'altra parte è la predisposizione anatomica e fisiologica, favorita da un lungo percorso evolutivo e di specializzazione, a determinare il tipo di locomozione più adatto allo stile di vita, che perfino in cattività viene mantenuto: in uno spazio angusto un lupo o un licaone sotto stress passano quasi ininterrottamente a trottare lungo le pareti e le diagonali del recinto, mentre un leone o una tigre fanno la stessa cosa ma camminando. Anche un'altra considerazione, questa volta molto pratica, andrebbe fatta a monte: dove si reperiscono i lupi da reintrodurre? Accettando il fatto che i lupi non vengono assemblati in serie come fossero dei droni meccanici, e che neanche esiste una iperproduzione stile Made in China (non me ne vogliano i cinesi), da qualche parte questi lupi devono arrivare e nella quantità giusta da poter avere successo. Due sono le possibilità, a questo punto: o si catturano in natura da qualche parte e da qualche altra parte in natura si rilasciano, oppure esiste in qualche sperduto posto, lontano dagli occhi e dalle orecchie della gente comune, qualche allevamento clandestino. La seconda possibilità direi di escluderla, se non altro perché non mi sembra che qualcuno abbia mai scovato un allevamento del genere: è stato molto più facile scoprire l'esistenza della misteriosa ”Area 51” in Nevada, la base militare e sperimentale degli U.S.A. più segreta in assoluto. Nel primo caso si parla di traslocazioni, che possono essere introduzioni, reintroduzioni o ripopolamenti; ogni termine ha un preciso significato nella biologia della conservazione: vediamo brevemente quali sono. Con il termine “introduzione” si intende l'immissione di una specie alloctona (estranea geograficamente), ma ciò è severamente vietato dalla normativa poiché può provocare alterazioni ambientali ed ecologiche (per esempio l'eliminazione o la competizione con le specie autoctone, la diffusione di nuove patologie). La “reintroduzione” è l'immissione di una specie presente già in epoca storica con l'obiettivo di ricostituirne popolazioni stabili e vitali. Il “ripopolamento” è un intervento che mira ad incrementare il numero di soggetti di una popolazione già presente ma numericamente ridotta. Nel caso del lupo si parlerebbe essenzialmente di reintroduzioni, in zone dove nel frattempo era scomparso (ma c'era), ma queste non si possono improvvisare, esistono dei precisi protocolli da seguire ed è innanzitutto necessario analizzare e poi eliminare le cause che hanno determinato la passata estinzione, altrimenti la reintroduzione sarebbe del tutto inefficace e controproducente. Perciò, insistere con questa credenza della reintroduzione è come dire che coloro che avrebbero rilasciato lupi sono in realtà i loro veri nemici e invece, per la legge del contrappasso, chi non li vuole sono quelli che li amano (il bracconaggio non sarebbe altro che un eccesso d'amore...). La cosa che deve essere ben compresa è che il mondo scientifico (ricordiamo la differenza che intercorre tra gli zoologi e gli animalisti) è ben consapevole che tra i principali motivi per cui non si effettuano reintroduzioni, soprattutto di mammiferi predatori, è che la popolazione locale non è detto che li accetti. In Italia l'unico rilascio (ripopolamento) effettuato di un mammifero carnivoro è stato quello dell'orso in Trentino con esemplari catturati in Slovenia allo scopo di prevenire l'allora imminente estinzione della specie sulle Alpi centrali. Per quella operazione (siamo alle soglie del 2000) fu fatta, oltre alle necessarie valutazioni tecniche e scientifiche, anche un'indagine demoscopica per appurare l'opinione che avevano i residenti nel territorio interessato dal progetto (ricadente in tre regioni, Trentino Alto Adige, Lombardia e Veneto): l'operazione nel suo complesso fu vista favorevolmente dalla stragrande maggioranza degli intervistati (80%). Fatto importante era che in quel caso non esisteva ancora nelle comunità locali un distacco emotivo dal grosso animale, in quanto non era del tutto scomparso e, alla meno peggio, resistevano ancora tre individui autoctoni in Trentino. Nel caso del lupo la questione è diversa, parliamo di aree dalle quali è scomparso da 100-150 anni e del quale si era persa del tutto la memoria. Per ripopolare l'orso bruno si sono prese mille accortezze, per coerenza e logica ci si aspetterebbe almeno la stessa cosa per le reintroduzioni di lupo, invece non ve n'è traccia. Perché? Perché la reintroduzione semplicemente non c'è mai stata. È impossibile, oggi come oggi, per di più in un paese ad alta densità abitativa, trascurare uno degli aspetti più importanti su cui si basano le reintroduzioni di fauna selvatica: l'accettazione sociale. 
Ad esclusione dei predatori, nel passato (anni '50-'70 dello scorso secolo) rilasci di ungulati ne sono stati fatti a bizzeffe per iniziativa principalmente dei cacciatori, basti pensare al cinghiale, al muflone e al daino (in tutti e tre i casi venivano rilasciati esemplari non autoctoni, il daino addirittura sarebbe estraneo alla fauna italiana). Oramai per tutte le specie, da quelle di interesse venatorio a quelle importanti per la conservazione, sussistono le stesse regole: non possono essere fatte immissioni di propria iniziativa. Rilasciare animali selvatici è una responsabilità esclusiva dello Stato, il quale sovrintende attraverso un suo organo preposto (I.S.P.R.A.), e chi lo fa clandestinamente commette un reato penale. È nota la reintroduzione del lupo grigio nel 1995 nel Parco Nazionale di Yellowstone (U.S.A.), fu lo stesso governo federale ad averla autorizzata ritenendo impossibile in tempi brevi un suo ritorno in quella grande area; in nessun paese europeo è invece mai stata effettuata. Se le condizioni sono favorevoli il lupo torna con le sue zampe, lo ha ben dimostrato ovunque, è solo una questione di tempo. E mentre ancora alcuni media mantengono una linea di non accettazione del suo ritorno naturale nell'arco alpino, un altro animale ha dato prova di quel che sono capaci di fare i canidi: una volpe artica munita di collare satellitare ha percorso ben 3.500 chilometri, andando da una delle isole delle Svalbard (Norvegia) all'Isola di Ellesmere (Canada) attraversando la Groenlandia, in appena 76 giorni, mantenendo una media di 46 chilometri al giorno, tutto su ghiaccio. Una volpe artica pesa in media quattro chili, un lupo appenninico ne pesa dieci volte tanto: ecco di chi stiamo parlando.

Tratto da:   "Non c'era una volta..." Il mondo animale tra fantasia e realtà: miti, leggende, luoghi comuni e fake news.  di Aldo Martina, Copright © 2020 Edizioni del Faro (ISBN 978-88-5512-136-1) pag. 288.  

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